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1885.
Erano i tempi della nostra Vita Nuova.
Con questo titolo uscì nel 1876 a Milano un giornale letterariosostenuto in parte dai raminghi scrittori dell'antica Palestraletteraria e da altri nuovi venuti. Furono e l'uno e l'altro duebagliori, più che due fuochi, ma a quella vampa molti giovani siconobbero a tempo, molte volontà si sgranchirono, molti ingegni siaccesero. Poi venne la vita vera per alcuni, l'oblìo per altri, lamorte per i migliori.
Fu in quell'anno ch'io conobbi Ambrogio Bazzero, il primo dei nostrimorti,
Non molto alto di persona, di capelli rari per grave malattia soffertaqualche anno prima; con bei baffi rossicci, di fattezze regolari,parlava con una voce chiara, ora argutamente, ora in tono di profondatristezza. Mobile, nervoso, fuggevole, caro, fu il più attivo, ilpiù ordinato, il più candido di quella babilonia che si dicevaper burla Amministrazione della Vita Nuova.
Il Bazzero era nato il 15 ottobre 1851 a Milano, da una riccafamiglia. L'essere ricco non nocque a lui, come nuoce a molti che latroppa fortuna confonde e stanca, perchè il denaro non gl'impedìmai di studiare e di fare del gran bene alla povera gente.
Fin da fanciullo, dice un santo libricciuolo che mi fu dato diconsultare, Ambrogio mostrò animo così pietoso, che non osavafar male a una formica. D'inverno spargeva miglio e briciole di panesul davanzale della finestra e godeva a vedere gli uccelli chevenivano confidenti a mangiare. Era così semplice ne' suoi gustiche un fiore, un frutto, un bambino, un cagnolino rapivano subito lasua attenzione e bastavano a consolarlo e a rallegrarlo.
Questa semplicità di gusto egli conservò sempre, e passeggiandocon lui, era curioso il vedere come egli sapesse rilevare il bello eil grottesco nelle cose più comuni, nel saltellare elastico d'unpasserotto sull'erba, o nel subito atteggiarsi d'un gatto, o neighirigori d'un'inferriata, o nella frase volante d'un vetturale, o inun proverbio di contadini, dei quali sapeva ingegnosamente imitare lacadenza e i fiori del linguaggio.
Dopo il Liceo, in cui fu suo caro maestro Leopoldo Marenco, studiòlegge privatamente, cosa di cui si lamentava sempre per non averpotuto apprendere nel libero consorzio universitario la scienza dellavita e una maggiore sicurezza di sè stesso. E veramente in lui atrent'anni tremava ancora il fanciullo.
Il pensiero era libero e audace, ma la volontà paurosa. Di questosquilibrio di forze, fra l'occhio che vede e la mano che non osa, eglisi querelava spesso con me durante il nostro viaggio di piacere aFirenze e a Venezia, e spesso ne piange anche in questo libro, cheè la storia dell'anima sua. Più che i codici amava le sue armiantiche di cui aveva in casa una ricca collezione, i suoi elmi, le suespade rugginose, le celate, gli stocchi, gli archibugi a ruota. Nèminore era il suo entusiasmo per ogni altra sorta d'anticaglia,mobili, stipi, poltrone, inferriate, tappeti, e non già per moda,come usarono poi molti dei nostri ricchi, ma per il sentimen